domenica 19 aprile 2009

Chi non salta comunista è....

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di EUGENIO SCALFARI

Non si può non cominciare con le nomine alla Rai. Gli altri giornali minimizzano con l'aria di dire che si è sempre fatto così: la Rai è proprietà del governo e quindi è il governo che ha il potere di decidere trasmettendo le sue indicazioni all'obbediente maggioranza del Consiglio d'amministrazione.

E' vero, sostanzialmente è sempre stato così ma con qualche differenza di non poco conto. La prima differenza è questa: nessun governo, tranne quelli guidati da Silvio Berlusconi, ha mai avuto a sua disposizione le televisioni commerciali, cioè l'altra metà del cielo televisivo. Il fatto che l'attuale presidente del Consiglio abbia a sua completa mercé la propria azienda televisiva privata e l'intera azienda pubblica (salvo la riserva indiana di Raitre finché durerà) configura quindi una situazione che non ha riscontro in nessuna democrazia del mondo. Non so se sia vero che le nomine siano state decise l'altra sera nella riunione di tre ore nell'abitazione romana del premier. E' certo comunque che i nomi proposti dal direttore generale Masi saranno ratificati senza fiatare dal Cda della Rai di mercoledì prossimo e saranno tutti "famigli" di Berlusconi, provenienti dalle sue televisioni private o dai suoi giornali o pescati tra le giovani speranze già inserite nell'accogliente acquario dell'azienda pubblica, collaudati custodi del credo berlusconiano nel circuito mediatico.

Non ci sarà purtroppo una sola persona che abbia mai mostrato un barlume d'indipendenza, un soprassalto di dignità professionale, un dubbio sull'assoluta verità predicata dal Capo.

Questo è lo scandalo, questa è la vergogna, alla quale quel poco di cosiddetta indipendenza che ancora esiste nella stampa italiana si sta ormai adattando per assuefazione esprimendo tutt'al più qualche sommesso brontolio subito seguito da rimbrotti all'opposizione, colpevole di ideologismo e di conservatorismo.

Il quadro è desolante. Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Il controllo dei "media" non serve soltanto a procacciar voti ma soprattutto a trasformare l'antropologia d'una nazione. Ed è questa trasformazione che ha imbarbarito la nostra società, l'ha de-costruita, de-politicizzata, frantumata, resa sensibile soltanto a precarie emozioni e insensibile alla logica e alla razionalità.

Chi non è d'accordo è comunista. E firme di intellettuali o sedicenti tali accreditano questo scempio culturale e questa menzogna.

Dedicherò dunque al predetto scempio il seguito del mio ragionamento.

Quindici anni fa partecipai alla presentazione di un libro di Achille Occhetto al circolo della stampa estera a Roma, in quell'occasione il corrispondente di un giornale tedesco mi domandò che fine avrebbero fatto i comunisti dopo che il Pci aveva buttato alle ortiche il suo nome e la sua ideologia.

Risposi che i comunisti dovevano morire e così i loro figli e nipoti fino alla settima generazione. Solo quando fossero tutti fisicamente estinti sarebbe cessata la polemica nei loro confronti. Infatti è quanto è avvenuto e sta ancora avvenendo e poiché siamo ancora lontani dalla settima generazione l'anatema contro di loro continua e continuerà per un bel pezzo. Non è soltanto il tema prediletto dal nostro premier e dai Bonaiuti di turno, è anche diventato il piatto forte di molti belli ingegni transumanti che all'ombra del revisionismo sono passati dall'anticomunismo di "Lotta continua" e di "Potere operaio" all'anticomunismo di destra. Per loro ormai i comunisti sono diventati un'ossessione, ne vedono la presenza ovunque, alimentano i loro incubi e le loro farneticazioni e ai comunisti attribuiscono tutti i mali antichi, recenti, attuali e futuri che affliggono la politica italiana.

I comunisti. Il Partito comunista italiano. La sinistra italiana. Sono ancora tra noi. Non sono affatto scomparsi. Non sono estinti. Non sono stati rinnegati. Finché questo lavacro definitivo non sarà compiuto l'Italia sarà in pericolo e con essa anche la democrazia.
Ne ha fatto le spese l'ultimo libro di Aldo Schiavone il quale ha risposto al mitragliamento di cui era bersaglio con un articolo su "Repubblica" di qualche giorno fa. Con pungente ironia Schiavone domandava ai suoi interlocutori: che cosa volete che faccia? Debbo suicidarmi? Vi contentereste invece se promovessi un salmodiante corteo di pentiti che percorrano le strade d'Italia autoflagellandosi e invocando perdono per il peccato d'essere stati nel Pci?

La risposta non è ancora arrivata ma sarà sicuramente quella da me anticipata nel 1994, all'alba della stella berlusconiana: dovete morire fino alla settima generazione. Caro Aldo Schiavone, non c'è altra espiazione che basti a cancellare il vostro peccato mortale.

Tra le persone che mi onorano della loro amicizia c'è Alfredo Reichlin. Abbiamo più o meno la stessa età, ci conosciamo e stimiamo da mezzo secolo sebbene i nostri percorsi culturali siano stati assai diversi. Lui entrò nel Pci ai tempi della Resistenza, io sono di cultura liberale e tale sono rimasto anche se dopo la morte di Ugo La Malfa ho sempre votato per il Pci, poi per i Ds e infine per il Partito democratico che è il più conforme alle mie idee liberal-democratiche.

Reichlin ha scritto qualche anno fa un libro insieme a Miriam Mafai e a Vittorio Foa, che ha avuto molto successo ed è stato portato in teatro da Luca Ronconi. La domanda che quel libro si poneva era appunto perché un democratico è potuto diventare comunista e che cosa faranno i comunisti dopo che il comunismo è scomparso dalla scena politica del mondo.

Tra le risposte ce n'è una di Reichlin che riassumo così: il Pci ha certamente commesso molti errori, ha condiviso un'ideologia sbagliata, ha perfino coperto alcuni crimini, ma non è una realtà discesa sull'Italia come un meteorite. La domanda da porsi è dunque questa: perché la società italiana ha reso possibile la nascita d'un partito come il Pci, al quale si sono iscritti o per il quale hanno votato operai e borghesi, artigiani e contadini, marxisti e liberali, atei e credenti? Che al suo culmine ha quantitativamente raggiunto i voti della Democrazia Cristiana? Che Aldo Moro ha associato negli anni di piombo al governo del paese?

Questa domanda meriterebbe un'analisi seria. Almeno altrettanto seria quanto l'altra domanda speculare: perché la società italiana attuale ha reso possibile la nascita del berlusconismo e gli ha dato uno strapotere che somiglia sempre più ad un regime?

Con una differenza tra le due domande: ragionare sul Partito comunista sta diventando col passare degli anni materia per gli storici; ragionare sul berlusconismo è un tema maledettamente attuale e riguarda la politica e non ancora la storia.

Si dice che ormai non c'è più differenza tra destra e sinistra. Si inventano nuove classificazioni, per esempio quella tra progressisti, moderati, conservatori. Discorsi inutili e abbastanza noiosi. Scolastici. Lontani dalla realtà.

Il tema di oggi è il rapporto tra i grandi ideali della modernità: libertà eguaglianza fraternità. L'ho già scritto altre volte: l'età moderna è nata da questo trittico di principi e ha dato segnali di decadenza tutte le volte che quel trittico si è indebolito nelle coscienze e nella politica.

Il tema di oggi è quello di ridurre le disuguaglianze senza mettere a rischio la libertà. Questo distingue la sinistra dalla destra.

Bisogna tradurlo in atti politici. Bisogna cambiare l'antropologia del Paese. Bisogna superare l'indifferenza e l'apatia. Bisogna resistere per costruire il futuro.
(La Repubblica)

giovedì 16 aprile 2009

Dalla parte delle vignette

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di Massimo Gramellini
Vauro sospeso e Santoro «riequilibrato». Sono le decisioni del nuovo direttore generale della Rai a una settimana dalla puntata di AnnoZero che ha indignato molti, compreso chi scrive, perché ha voluto processare lo Stato a macerie ancora calde, dando prova non di cattivo giornalismo ma di cattivo gusto. Santoro e i suoi inviati non hanno criticato l’azione dei soccorritori, come sostengono alcuni critici. Hanno denunciato l’assenza di un piano preventivo di soccorsi.

Ma il farlo mentre i soccorsi erano in atto e centinaia di persone rischiavano la pelle per salvarne delle altre è parso a molti, compreso a chi scrive, l’ennesima prova del distacco abissale fra certi intellettuali di sinistra e la percezione della realtà. Una mandria di rinoceronti sarebbe stata più sensibile.

Eppure, delle due sanzioni assunte dalla Rai, una lascia esterrefatti e l’altra suscita perplessità. Cominciamo dalle perplessità. In astratto si può essere d’accordo con l’intenzione di «riequilibrare» un programma palesemente squilibrato. Ma in cosa si tradurrà questo riequilibrio in concreto? Il monologo iniziale di Travaglio sarà sostituito da uno di Sgarbi? Santoro girerà per lo studio senz’audio, doppiato da Emilio Fede? Seriamente: «riequilibrio» significa che gli inviati di AnnoZero dovranno impegnarsi a intervistare i vigili del fuoco e i rari casi umani ancora sfuggiti alle telecamere degli altri centoventisette programmi che hanno infilato i loro denti aguzzi nella Immane Tragedia dispensatrice di audience?

Nessuno si faccia illusioni. L’obiettività è una chimera: la stessa intervista, trasmessa ad AnnoZero e, poniamo, a Porta a Porta, cambia completamente significato con una musica, un montaggio e un «cappello» introduttivo differenti. I fatti non sono mai separabili dalle opinioni, per la semplice ragione che i fatti sono opinioni, a seconda dell’ordine e del modo in cui vengono apparecchiati. Perciò l’unica garanzia di obiettività non è una trasmissione plurale, ma una pluralità di trasmissioni. Poiché siamo in Italia, finirà all’italiana. Santoro ribadirà di non aver voluto offendere, ma solo indagare le cause delle disfunzioni organizzative. I suoi amici diranno che AnnoZero dà voce ai mal di pancia di una minoranza che non si riconosce nel cloroformio dei grandi partiti e non ha altre piazze televisive a disposizione. I suoi avversari ribadiranno che Santoro è fazioso e in malafede. E si andrà avanti così, ciascuno convinto di avere ragione e di essere una vittima.

A lasciare esterrefatti è invece la sospensione di Vauro. La sua vignetta sull’aumento di cubatura dei cimiteri, esibita in coda ad AnnoZero, offendeva la sensibilità di chi aveva appena perso una persona cara. Ma non era un articolo di fondo. Era una vignetta. Quando gli estremisti islamici si sentirono offesi da quelle su Maometto, molti di coloro che oggi plaudono alla sospensione di Vauro erano in prima fila, addirittura in tv a canotta sguainata, nel difendere la libertà di espressione. Le vignette sono un porto franco. Non possono soggiacere ad alcun vincolo, nemmeno a quello del buon gusto (che, se peraltro venisse applicato sul serio, porterebbe alla chiusura dell’80% del palinsesto televisivo). Il guaio è che, come insegna l’Undici Settembre, le catastrofi provocano sempre, di riflesso, un irrigidimento del potere. L’altra sera, a Ballarò, persino una battuta innocua di Crozza ha ricevuto la risposta sussiegosa del ministro Maroni («In un momento così tragico...»). Ecco, in un momento così tragico bisogna difendersi dalla prosopopea e dalla retorica. E quindi difendere anche il diritto alle battute di dubbio gusto, chiunque sia a pronunciarle: un presidente del Consiglio come un vignettista del manifesto.
(La Stampa)

Guai alla tv che rema contro

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di MICHELE SERRA
Rispetto ai tempi del goffo "editto bulgaro", le nubi censorie che si addensano su Michele Santoro e su Milena Gabanelli (e tramite loro sulla Rai nel suo insieme) esprimono un punto di scontro più nitido e, nel suo genere, più maturo.

Non è solo e non è tanto la "faziosità politica" - colpa opinabile per definizione - a essere sotto tiro. È la sostanza stessa del medium più importante e penetrante, la televisione, che trasmissioni come Annozero e Report interpretano come un contro-potere strutturalmente autonomo (tale è l'informazione nella tradizione delle democrazie), e questo potere politico intende, invece, come cingolo di trasmissione dei propri scopi: non per caso è un potere al tempo stesso politico e mediatico. Anche tecnicamente.

Nei giorni drammatici del terremoto, lo scontro tra queste due funzioni della televisione è stato evidente. Si trattava di mettere l'accento sulle deficienze strutturali e le responsabilità umane che hanno aggravato di molto il bilancio delle vittime e dei danni. Oppure di esaltare l'opera dei soccorsi e l'efficienza dello Stato. Il primo obiettivo è tipico del giornalismo-giornalismo, che qui da noi, non si capisce bene per quale strambo equivoco, si chiama "d'assalto". Il secondo obiettivo è invece tipico della propaganda politica. Genera un linguaggio che tende alla retorica del positivo quanto il primo rischia di cadere nella retorica del negativo.

Scelga ognuno quale di questi due rischi sia più sgradevole e pericoloso per la pubblica opinione. Ma si sappia che è solo il primo rischio - quello di una televisione aspra e irriducibile - a essere sotto accusa, e a nessuno, né dentro la Rai né nella cerchia della politica, è venuto in mente di biasimare o sanzionare le centinaia di ore di televisione leziosa e piagnona che hanno imbozzolato la tragedia del terremoto in un reticolo implacabile di buoni sentimenti, misurando ben più volentieri il diametro della "bontà nazionale" che quello dei pilastri sottodimensionati.

Che i media abbiano anche, in queste situazioni, una funzione di rete connettiva, non solo logistica, che aiuta a reggere l'urto della morte, e a sentirsi comunità, è fuori di dubbio. Ma questa funzione è stata svolta perfino con sovrabbondanza, e fino a rendere stucchevoli anche le immagini del dolore e della rovina. Santoro e la sua redazione hanno scelto - in minoranza - di fare il resto del lavoro, come compete alla storia professionale di un giornalista molto discusso (e discutibile) ma molto tenace. E premiato dall'audience, concetto evidentemente sacro quando si tratti di contare i soldi della pubblicità, ma subito sottaciuto quando si tratti di misurare la temperatura di una parte consistente dell'opinione pubblica.

Peccato che questo "resto del lavoro", sicuramente complementare a un quadro generale molto più blandamente critico, risulti insopportabile al potere politico, così come la puntuta inchiesta di Milena Gabanelli sulla social-card non poteva che fare imbufalire il ministro Tremonti.

"Remare contro" fu una delle prime accuse che il Berlusconi leader nascente mosse ai suoi oppositori. Non lo sfiorò (e non lo sfiora) il sospetto che c'è chi rema né contro né a favore, ma per suo conto. Anche sbagliando, ma sottoponendo al giudizio del pubblico, non al giudizio del potere, i propri errori. Il giornalismo è questo, e dovrebbe saperlo anche il direttore del Giornale Mario Giordano, che un minuto dopo avere potuto dire esattamente quanto voleva dire ad "Annozero" ha orchestrato una violenta campagna di stampa contro lo "sciacallo Santoro". Qualcuno aveva forse detto a Giordano, o a uno qualunque dei giornalisti e telegiornalisti governativi, che usare il terremoto per magnificare la prestanza e la generosità del premier era "sciacallaggio"? Ci si era limitati a pensare, magari, che fosse cattivo gusto, e la libertà di cattivo gusto, se non è sancita dalla Costituzione, è suggerita dal buon senso.

Quanto alla vignetta di Vauro trattata da casus belli e ridicolmente accusata di mancanza di "pietà per le vittime", varrebbe il concetto di cui sopra: qualora la si ritenga di cattivo gusto, da quando il cattivo gusto è oggetto di censura? E quelli che, al contrario, affidano la "pietà per le vittime" a ben altri canali, magari privati, e apprezzano la ruvida intelligenza e la lunga coerenza professionale di Vauro, dovrebbero forse ingoiare il boccone della censura nel nome di una "informazione corretta"? Ma corretta da chi? Dal direttore del "Giornale"?
(La Repubblica)

 
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