venerdì 27 febbraio 2009

Scontri in Vaticano

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Carlo Marroni
Il segnale che il livello di guardia è ormai raggiunto è arrivato da Londra. Il cardinale Cormac Murphy-O'Connor, capo della Chiesa cattolica inglese, ha vietato all'arcivescovo di curia, Raymond Burke, prefetto della Segnatura apostolica, di celebrare nella cattedrale di Westminster una messa in latino secondo le nuove regole del Motu Proprio del 2007 sul messale tridentino.

Burke, americano, non è un vescovo tra i tanti: è un falco, uno dell'ala dura dei custodi della tradizione voluto direttamente da Benedetto XVI di cui è giurista di fiducia. Si sta lentamente abbassando il polverone sul caso dei lefebvriani e del vescovo negazionista Richard Williamson (che tornato in Inghilterra incontrerà il "collega" storico, il vescovo David Irving), e si può vedere con più chiarezza il duro confronto in atto tra le varie anime della Chiesa, immediatamente sotto il Soglio di Pietro.

Conservatori e progressisti sono categorie che solo in piccola parte riescono a definire quello che spesso sfocia in scontro, visti i registri usati di là dal Tevere e nelle curie vescovili dell'Italia e del resto del mondo.

Il governo della Chiesa di Benedetto XVI, che si avvia verso il quarto anno di pontificato, fa fatica a comunicare con il resto del mondo- che si commuoveva ai messaggi universali di Karol Wojtyla - e stenta a declinare la lotta al relativismo etico di Joseph Ratzinger.

Che negli ultimi giorni è venuto allo scoperto come era difficile immaginare fino a qualche tempo fa: non lasciatemi solo, ha detto il Papa, e ha denunciato le divisioni all'interno della Chiesa. Il cardinale segretario di Stato, Tarcisio Bertone, governa con decisione ma si tiene abilmente al di sopra delle questioni che stanno sul tappeto e che mettono in risalto come le diverse fazioni si confrontino sui singoli temi.

Un segnale fortissimo- e del tutto ignorato - è stato il messaggio di ringraziamento del Papa ai vescovi spagnoli che lo hanno sostenuto nella revoca della scomunica ai tradizionalisti. L'espiscopato spagnolo, guidato dal cardinale di Madrid Antonio Rouco Varela, è considerato quello più conservatore.

Dalla Spagna proviene il cardinale Antonio Canizares Llovera, "il piccolo Ratzinger", promosso di recente da vescovo di Toledo a prefetto per il Culto divino. I vescovi spagnoli sono quelli che portano in piazza due milioni di fedeli contro il Governo Zapatero (che di recente ha siglato una pace, o più probabilmente solo una tregua, con il Vaticano grazie alla visita di Bertone a Madrid) e che organizzeranno la prossima Giornata mondiale dei giovani.

Il ringraziamento pubblico del Papa, del tutto inconsueto, è un messaggio a quegli episcopati che invece lo hanno attaccato o comunque non sostenuto nella vicenda dei lefebvriani: dai tedeschi ai francesi, dagli svizzeri agli austriaci.

In Austria, il cardinale di Vienna, Christoph Schönborn, vecchio allievo del professor Ratzinger, ha criticato «i collaboratori del Papa» che hanno gestito la vicenda Williamson e ha dovuto convincere Roma a revocare la nomina a vescovo ausiliare di Linz dell'ultraconservatore Gerhard Wagner.

Il perdono dei lefebvriani - gestito dal cardinale Dario Castrillon Hoyos, ora nell'occhio del ciclone - è ancora a metà strada e le difficoltà per arrivare alla riabilitazione piena della Fraternità di Pio X sembrano enormi, vista la posizione del superiore Bernard Fellay che continua a negare il Concilio vaticano II (in Nostra Aetate è contenuta la chiave della pace con il popolo ebraico).

Molte delle alte cariche di curia nominate da Benedetto XVI - il sostituto Fernando Filoni e i cardinali William Levada ( Dottrina della fede), Ivan Dias (Propaganda fide) e Claudio Hummes (Clero)- sono indicate su posizioni sempre più liberal, e rafforzano il partito dei "diplomatici", capeggiato idealmente da Achille Silvestrini e dall'ex segretario di Stato Angelo Sodano, che non condivide la linea intrapresa dal Vaticano. Anche su questioni internazionali di portata storica.

Prima di tutte quella su Israele: il viaggio del Papa ha ancora delle incognite, rappresentate dalla visita al mausoleo di Yad Vashem (dove c'èla didascalia con le accuse a Pio XII) e il raggiungimento di un accordo tra i due Stati per il trattamento fiscale dei beni della Chiesa in Terra Santa (la riunione risolutiva del negoziato che va avanti da 10 anni si terrà il 7 aprile, un mese prima della visita papale). Su questo terreno si misura il cardinale Walter Kasper, che più di ogni altro ha attaccato la gestione della curia del caso Williamson.

Poi la Cina, nel cuore del Papa che due anni fa scrisse una lettera ai cattolici cinesi che devono vivere in una condizione di semi clandestinità: il confronto con Pechino è uno dei dossier più scottanti della segreteria di Stato.

E anche su questo punto le scuole di pensiero si confrontano: da una parte il cardinale di Hong Kong, Joseph Zen (stimato dal Papa, che lo invitò a guidare le meditazioni della Via Crucis la scorsa Pasqua) è per la linea dura con il regime comunista, mentre dentro la curia si spinge per un maggior dialogo (spiccano l'arcivescovo Claudio Maria Celli, ora a capo del dicastero per le Comunicazioni-per molti sarebbe l'ideale nunzio apostolico a Pechino se si arrivasse a un avvio delle relazione diplomatiche e il sottosegretario Piero Parolin, impegnato per un accordo con il Vietnam).

L'altro tema-chiave della Chiesa di Benedetto XVI è il ruolo della Cei. Dopo l'uscita di Camillo Ruini, due anni fa, e del segretario generale Giuseppe Betori, lo scorso ottobre, si è realizzato il progetto di Bertone, che nel 2007 inviò alla Conferenza un messaggio pubblico netto: a guidare la politica e i rapporti con il Palazzo in Italia sarà la segreteria di Stato. E così è stato.

Il cardinale Angelo Bagnasco ha avviato con convinzione una linea di intervento sulla pastorale, accantonando progressivamente l'interventismo che aveva caratterizzato la gestione ruiniana, e culminato con il Family day e il fallimento del referendum sulla legge 40.

La nomina del vescovo Mariano Crociata a segretario ha confermato questa linea: la Cei interviene sulle questioni dell'immigrazione, sulle difficoltà e gli aiuti alle famiglie disagiate, sui giovani, sulla cultura. Ma ha abbassato moltissimo i toni sui valori non negoziabili - a partire dal testamento biologico, partita-chiave dei prossimi mesi che si gioca a diversi livelli (si segnala un attivismo dello stesso Betori, ora arcivescovo di Firenze, considerato su posizioni più dialoganti).

A fronte di un minore peso politico della Cei cresce l'articolazione sul territorio dei vari vescovi: i falchi della linea dura, i terzisti (o pontieri, secondo vecchie definizioni mutuate da Montecitorio) e le colombe progressiste pronte a parlare con il mondo secolarizzato. Questi ultimi, di stampo martiniano - fu proprio il cardinale Carlo Maria Martini a dire per primo no all'accanimento terapeutico- si riconoscono nel cardinale di Milano Dionigi Tettamanzi, attivissimo nell'ultimo anno, specie sul fronte sociale.

Bagnasco è considerato il capo fila dei "terzisti" saldi nei principi ma pronti al dialogo, mentre a capo della linea dura c'è sempre Camillo Ruini, che nonostante la pensione ufficiale (conserva un incarico in Cei tutt'altro che secondario, per la verità) resta un punto di riferimento per la Chiesa identitaria e militante.
(Il Sole24Ore)

Hans Küng

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di N. Bourcier e S. Le Bars
Alto e magro, con il volto glabro e il ciuffo ribelle, Hans Küng , considerato il massimo teologo cattolico dissidente vivente, riceve nel suo studio di Tubinga dai muri tappezzati di libri, dove i suoi - tradotti in tutte le lingue - occupano il posto d'onore.
Professore, come giudica la decisione del Papa di togliere la scomunica ai quattro vescovi integralisti di monsignor Lefebvre, uno dei quali, Richard Williamson, è un negazionista?
"Non ne sono rimasto sorpreso. Già nel 1977, in una intervista a un giornale italiano, Monsignor Lefebvre diceva che "alcuni cardinali sostengono il mio corso" e che "il nuovo cardinal Ratzinger ha promesso si intervenire presso il Papa per trovare una soluzione". Questo dimostra che la questione non è né un problema nuovo né una sorpresa. Benedetto XVI ha sempre parlato molto con queste persone.
Oggi toglie loro la scomunica, perché ritiene che sia il momento giusto per farlo. Ha pensato di poter trovare una formula per reintegrare gli scismatici i quali, pur conservando le loro convinzioni personali, avrebbero potuto dare l'impressione di essere d'accordo con il concilio Vaticano II. Si è proprio sbagliato".
Come spiega il fatto che il Papa non abbia misurato la dimensione della protesta che la sua decisione avrebbe suscitato, anche al di là dei discorsi negazionisti di Richard Williamson?
"La revoca delle scomuniche non è stato un errore di comunicazione o di tattica, ma un errore del governo del Vaticano. Anche se il Papa non era a conoscenza dei discorsi negazionisti di monsignor Williamson e lui personalmente non è antisemita, tutti sanno che quei quattro vescovi lo sono. In questa faccenda il problema fondamentale è l'opposizione al Vaticano II, in particolare il rifiuto di un rapporto nuovo con l'ebraismo. Un Papa tedesco avrebbe dovuto considerare centrale questo punto e mostrarsi senza ambiguità nei confronti dell'Olocausto. Invece non ha valutato bene il pericolo. Contrariamente alla cancelliera Merkel, che ha prontamente reagito.
Benedetto XVI è sempre vissuto in un ambiente ecclesiastico. Ha viaggiato molto poco. E' sempre rimasto chiuso in Vaticano - che è assai simile al Cremlino d'un tempo -, dove è al riparo dalle critiche. All'improvviso, non è stato capace di capire l'impatto nel mondo di una decisione del genere. Il segretario di Stato, Tarcisio Bertone, che potrebbe essere un contropotere, era un suo subordinato alla Congregazione per la dottrina della fede; è un uomo di dottrina, completamente sottomesso a Benedetto XVI. Ci troviamo di fronte a un problema di struttura. Non c'è nessun elemento democratico in questo sistema, nessuna correzione. Il Papa è stato eletto dai conservatori e oggi è lui che nomina i conservatori".
In che misura si può dire che il Papa è ancora fedele agli insegnamenti del Vaticano II?
"A modo suo è fedele al Concilio. Insiste sempre, come Giovanni Paolo II, sulla continuità con la "tradizione". Per lui questa tradizione risale al periodo medioevale ed ellenistico. Soprattutto non vuole ammettere che il Vaticano II ha provocato una rottura, ad esempio sul riconoscimento della libertà religiosa, combattuta da tutti i papi vissuti prima del Concilio. L'idea di fondo di Benedetto XVI è che il Concilio vada accolto, ma anche interpretato: forse non al modo dei lefebvriani, ma in ogni caso nel rispetto della tradizione e in modo restrittivo.
Per esempio è sempre stato critico sulla liturgia. E ha una posizione ambigua sui testi del Concilio, perché non si trova a suo agio con la modernità e la riforma, mentre il Vaticano II ha rappresentato l'integrazione nella Chiesa cattolica del paradigma della riforma e della modernità. Monsignor Lefebvre non l'ha mai accettato, e nemmeno i suoi amici in Curia. Sotto questo aspetto Benedetto XVI ha una certa simpatia per monsignor Lefebvre. D'altra parte trovo scandaloso che, per i 50 anni dal lancio del Concilio da parte di Giovanni XXIII, nel gennaio 1959, il Papa non abbia fatto l'elogio del suo predecessore, ma abbia scelto di togliere la scomunica a persone che si erano opposte a questo concilio".
Che Chiesa lascerà questo Papa ai suoi successori?
"Penso che difenda l'idea del "piccolo gregge". È un po' la linea degli integralisti: pochi fedeli e una Chiesa elitaria, formata da "veri" cattolici. È un'illusione pensare che si possa continuare così, senza preti né vocazioni. Questa evoluzione è chiaramente una restaurazione, che si manifesta nella liturgia, ma anche in atti e gesti, come dire ai protestanti che la Chiesa cattolica è l'unica vera Chiesa".
La Chiesa cattolica è in pericolo?
"La Chiesa rischia di diventare una setta. Molti cattolici non si aspettano più niente da questo Papa. È molto doloroso".
Lei ha scritto: "Com'è possibile che un teorico dotato, amabile e aperto come Joseph Ratzinger abbia potuto cambiare fino a questo punto e diventare il Grande Inquisitore romano?". Allora, com'è possibile?
"Penso che lo choc dei movimenti di protesta del 1968 abbia resuscitato il suo passato. Ratzinger era un conservatore. Durante il Concilio si è aperto, anche se era già scettico. Con il '68, è tornato a posizioni molto conservatrici, che ha mantenuto fino a oggi".
Lei pensa che possa ancora correggere questa evoluzione?
"Quando mi ha ricevuto, nel 2005, ha fatto un atto coraggioso e io ho veramente creduto che avrebbe trovato la via per le riforme, anche se lente. In quattro anni, invece, ha dimostrato il contrario. Oggi mi chiedo se sia capace di fare qualcosa di coraggioso. Tanto per cominciare, dovrebbe riconoscere che la Chiesa cattolica attraversa una crisi profonda.
Poi potrebbe fare un gesto verso i divorziati e dire che, a certe condizioni, possono essere ammessi alla comunione. Potrebbe correggere l'enciclica Humanae vitae, che nel 1968 ha condannato tutte le forme di contraccezione, dicendo che in certi casi l'uso della pillola è possibile. Potrebbe correggere la sua teologia, che data dal Concilio di Nizza (325). Potrebbe dire: "Abolisco la legge del celibato". È molto più potente del Presidente degli Stati Uniti! Non deve rendere conto a una Corte Suprema! Potrebbe anche convocare un nuovo Concilio".
Un Vaticano III?
"Permetterebbe di regolare alcune questioni rimaste in sospeso, come il celibato dei preti e la limitazione delle nascite. Si dovrebbe prevedere un modo nuovo per eleggere i vescovi, che contempli il coinvolgimento anche del popolo. L'attuale crisi ha suscitato un movimento di resistenza. Molti fedeli si rifiutano di tornare al vecchio sistema. Anche alcuni vescovi sono stati costretti a criticare la politica del Vaticano. La gerarchia non può ignorarlo".
La sua riabilitazione potrebbe far parte di questi gesti forti?
"In ogni caso sarebbe un gesto ben più facile del reintegro degli scismatici! Ma non credo che lo farà, perché Benedetto XVI si sente più vicino agli integralisti che alle persone come me, che hanno lavorato al Concilio e l'hanno accettato".
(La Stampa - via Dagospia)

mercoledì 18 febbraio 2009

Aldo Busi sui libri degli altri

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Mi fa mia sorella, mentre deposito per terra a casa sua un altro sacco di carta stampata rilegata e copertinata di cui ho liberato casa mia, "Ma tu i libri degli altri non li leggi?", "Leggo solo i libri degli scrittori", e tralascio di aggiungere "come me" per non irritarla, "E come fai a saperlo se non li apri nemmeno?" - e questo perché, di tutti i pacchetti contenenti libri che indirizzati a me dalle varie case editrici arrivano a lei, mai e poi mai me ne sono portato appresso uno: scartato il plico, il mio commento è sempre, "Vedi se ti interessa, altrimenti buttalo" -, "So, so".

Mi arriva di tutto, dai romanzi a manovella degli israeliani (tutti insopportabili senza eccezione; ma se i libri degli ebrei in generale mi hanno sempre rotto le palle, Roth compreso, niente in confronto a quanto me le rompono quelli degli arabi e dei sudafricani oggi più in voga) all'autoagiografia della Bignardi all'ennesima parabola cristologica dell'Augias ai ciclostilati Lucarelli/Camilleri.

Tuttavia, mia sorella e mia nipote e mio cognato sono impazziti per l'ultimo parto della Mazzantini e hanno fatto un tale can can in giro che buona parte delle copie vendute in Lombardia partiranno dal loro innocente entusiasmo, e sono contento per la Mazzantini, con tutte quelle bocche che ha da sfamare. Per me potrebbero benissimo morire di stenti anche indicibili.

Ho pregato tanto ogni casa editrice di non mandarmi la paccottiglia che pubblica alla cieca, cioè di non mandarmi niente, che i libri che voglio me li compro: niente da fare. Sperano in una mia recensione, visto quanto ho fatto vendere a fronte di quelle poche cui mi sono volentieri abbassato per una sfida tra me e me - è incredibile, ma io godo di una credibilità che forse in Italia nessun critico può vantare.

A parte il fatto che non saprei nemmeno più dove farmela ospitare, nelle mie recensioni ho sempre fatto sconti enormi (Ammaniti, perché era giovane, Maugham perché era morto, Agnello Hornby perché siciliana emigrata, e poi quel canadese cialtrone, pubblicato da Adelphi, di cui mi sfugge ora il nome), sebbene oneste: in tutte si dichiarava che i testi in esame erano di autori (di, si sperava, cassetta, ma ben meritata) per lettori da ombrellone o da dopo sci che desiderassero un'alternativa all'illustrato, e infatti alcuni di quei romanzi vendettero centinaia di migliaia di copie, proprio come dei rotocalchi.

Oggi sconti non ne farei a nessuno, nel senso che oggi non farei più nulla per promuovere il volume (d'affari) di un artigiano, per quanto bravo o anche solo bravino. Ho promosso molto, a voce, il libro di Saviano, e ancora prima che uscisse, e ho brigato personalmente affinché lui, ancora del tutto sconosciuto, andasse al festival della cellulosa di Mantova, e di recente ho tolto il saluto a una persona a me cara da anni perché non ha ribattuto niente a uno che, in mia assenza, le ha detto che secondo lui Saviano è "un infame", il che non significa che il libro non sia scritto un po' così, grondi di almeno cento pagine di ripetitività, sia editato con involuta insipienza scritturale, presenti dei grossolani salti di, si fa per dire, stile, come se ci avessero messo le mani troppe signorine dell'ufficio stampa, e non dica proprio niente dell'affaire usura in cui fu coinvolto il cardinale Giordano e parenti: troppo facile in Italia denunciare tutti meno che la Chiesa, madre e pezza d'appoggio di tutte le omertà. Insomma: un coraggio a metà, e non è che Saviano si sia mai sprecato nelle sue interviste nostrane e foreste sulle fortune politiche, se non economiche, del suo editore, Berlusconi. Chissà cosa succederebbe alla sopravvivenza della sua scorta se solo lasciasse balenare che Dell'Utri dovrebbe aumentare la taglia dei suoi gessati.

Però il suo reportage qui e là aveva l'acre odore della verità, e per me questo è bastato a sorvolare sulle pecche della scrittura, lagnosamente sensazionalista e tanto sincopata quanto prevedibile come i rintocchi della campana da uno a dodici a mezzogiorno e poi da uno a dodici a mezzanotte, la stressante mimica di una sintassi molto Stella Pende anni Ottanta e quindi molto bariccata Scuola Holden 2000. Lui sarà anche un martire, ma il sospetto che sia un martire alla moda è insopprimibile.

Di fronte a un fenomeno internazionale del genere, è naturale avere sentimenti contrastanti, ma uno su tutti prevalga, commiserazione a parte per la prosa: Saviano è in buonafede anche se non lo fosse e va difesa la sua libertà di scrivere come può e come sa. In malafede sono solo i suoi milioni di acquirenti non lettori, che prendono lucciole per lanterne e si sentono illuminati. Mica hanno letto Busi! Quanti di loro sono in grado di leggere e di apprezzare, per esempio, "Vendita galline km 2"? Una sporca dozzina in tutto?

Quindi, si possono vendere milioni di copie e ancora non è successo niente, ancora nessuno ha letto qualcosa: e perché non c'era niente da leggere (che già non si trovasse ampliamente sulle gazzette della quotidiana incultura e subcultura giornalistica), e perché a monte non c'è alcun Scrittore, e perché un lettore-lettore è una creatura rara come il suo Contraltare. E perché gli unici colpi che ha ricevuto il "Sistema" sono quelli alla porta, preannunciati con largo anticipo. Se oggi Saviano è quel che è, è in larga misura grazie a Susanna Tamaro che non è più quel che era - e sotto un altro. Ora, attentare alla vita di Saviano da parte dei Casalesi sarebbe incongruente, e anche un po' irriconoscente, come se le Orsoline attentassero a quella della Susanna. Inoltre, Saviano è in odore di Nobel: come punizione, se proprio, non basta e avanza?

L'editoria è una industria a fini lucrativi non più strana di tante altre: crea induzione verso il basso dove sono possibili i grandi numeri, quindi, come quella di preservativi, punta al familismo, alla sua perpetuazione, punta agli istruiti ignoranti di massa che ogni tanto si danno una velleità "civile" a modico prezzo, mentre la Letteratura esclude qualsivoglia ideologia "mirata", e per il pro e per il contro.

Per assurdo è sempre un caso se l'editoria pubblica un'opera di Letteratura, non è il suo mestiere e nemmeno il suo fine. Può succedere, ma per svista, e con la stessa frequenza con cui a una fabbrica di bottoni scappi di fare i buchi a una perla. Quindi a me di gente pubblicata che mi ruba tempo per leggere di gioie e dolori della coppia, di trasgressioni e idealità impiegatizie per poi sposarsi e fare figli e guerre e genocidi e pulizie etniche e apartheid e tormentoni soliti, non mi importa niente.

O meglio: se questo è il punto, da solo non basta perché a un testo non debba preferire un audio-visivo. So già a fine di pagina uno come inizia pagina cento, ecco: diciamo che, non presentando il linguaggio alcuna novità, non è certo con una trama anziché un'altra che tutte insieme possono attrarre il mio interesse. Mai iniziare un libro il cui senso sta solo nel come finisce, mai nel come procede.

Quanto ai libri del cosiddetto impegno, sono di per sé intrisi di una tale saccente ipocrisia (e parzialità di vedute) che mi stomacano già nella sacca del postino. A ben vedere, si potrebbe riassumere un libro di duecento pagine in un trafiletto di venti righe e la mia coscienza ovvero crescita di essere sociale non sarebbe cambiata e migliorata di una virgola - perché ciò che non stravolge l'estetica ricevuta, non sfiora l'etica da rifondare.

Sono libri di autori immancabilmente sentimentali che provengono dal giornalismo dell'Ordine, dalla magistratura, dalla politica, dalla televisione, dalla Sacra Famiglia dei valori acquisiti come un destino, dalla, infine, Prima e ultima Comunione che li ha resi dei furbacchioni standard, spesso degli incapaci cari al macinino dei media che li esalta per esaltare se stessi e la propria, inscavalcabile (secondo i medesimi, non secondo me) forza promozionale: siano essi produttori di libri sulla religione o sul desiderio frustrato di avere prole, su omicidi passionali o camorre o mafie o carriere avvocatizie, sono tutti uguali. Letto uno, letti tutti.

Uno Scrittore non ha un argomento del cuore e nemmeno una tesi del cuore, non sarà mai seriale, perché non lo è la lingua adottata, quasi sempre inventata, e grazie a questa lingua fa esplodere l'ovvio (reazionario) nella testa di chi lo legge, gli dà la prospettiva che lo irrita, che non voleva né cercare né trovare. Il libro di uno Scrittore per restare nel tempo deve farti provare disgusto di quello che sei ora. Ovviamente può trattare di personaggi in slums o magioni e in ogni forma di abitacolo al mondo, di clan e di lobby, di banche e di cosche, di Magliane e di Unesco, di Chiesa e di Mammona, ma l'oggetto della sua denuncia non è mai disgiunto dall'unica denuncia possibile: contro se stesso che lo scrive e, superfluo dirlo, contro il suo peggior nemico: chi lo legge.

 
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