di Antonello Caporale
La lunga vita telefonica di Silvio Berlusconi costituisce senza ombra di dubbio un pilastro degli archivi pubblici, quasi un bene demaniale dello Stato. Nel ventennale delle intercettazioni in cui il nome del premier direttamente o indirettamente compare, viene dato alle stampe "B. Tutte le carte del presidente", un volumone di Gianni Barbacetto (Marco Tropea Editore) che allunga la lista dei libri-inchiesta sul presidente del Consiglio.
Conti esteri, politici amici e finanzieri distratti: fatti che trascinano in giudizio dirigenti, commercialisti e avvocati della cerchia Fininvest ma lambiscono senza ferire il signor B. Ad alleggerire il clima di queste cupe pagine di indagini giudiziarie ci pensa sempre lui, il protagonista del libro.
Nella mirabile intercettazione del 31 dicembre 1986 (ore 20,52) finalmente entrano in scena le ragazze di Drive In, cult sculettante dell' epoca. Marcello Dell' Utri parla con Berlusconi. B: Iniziamo male l' anno! D. Perché male? B. Perché dovevano venire due di Drive In e ci hanno fatto il bidone! E anche Craxi è fuori della grazia di Dio!. D. Ah! Ma che te ne frega di Drive In? B. Che me ne frega? Poi finisce che non scopiamo più! Se non comincia così l' anno, non si scopa più! D. Va bene, insomma, che vada a scopare in un altro posto!
Un mese prima un altro lungo colloquio telefonico, questa volta tra l' ex capo di Publitalia e l' attuale presidente Mediaset Fedele Confalonieri. Di struscio (e teneramente) viene presa di mira la gelosia di Veronica Lario, la signora Berlusconi. Fedele dice all'amico Marcello: Guarda, ha fatto una scena di gelosia stasera, che era commovente. Io mi sono commosso per Silvio! D: (Ride) C. Davvero, ho detto: guarda che bello avere cinquant'anni ed avere ancora delle scene di gelosia! D. Il massimo della gratificazione! Come si sa, Silvio si innamora di Veronica vedendola a teatro, nel suo Manzoni. C' è la prima di "Magnifico cornuto" di Fernand Cromelynk, con Enrico Maria Salerno. La protagonista della commedia è Miriam Bartolini, in arte Veronica Lario, attrice bolognese ventiquattrenne. Berlusconi verrà rapito dalla sua bellezza. .. Sono gli anni dell'imprenditore rampante e già di successo, dell' uomo che sente un dovere assoluto per gli affari. E - forse - della concezione della libertà come un'azione più che un diritto. Così, la verità, la verità del Dottore, appare un vascello leggero sbattuto dalle onde.
Di Edilnord, la sua creatura, la società che ha costruito Milano 2, orgoglio perenne e mai taciuto, Berlusconi afferma di essere stato solo un consulente: «Mi è stato affidato l'incarico professionale della progettazione e della direzione generale del complesso residenziale di Milano 2», dice al finanziere che lo interroga, il capitano Massimo Maria Berruti, oggi deputato di Forza Italia. Dimentica di aver pagato l'affiliazione alla P2, dimentica l'anno di nascita della Fininvest, di cui pure è padrone.
La Fininvest. «Contro la volontà del dottor Berlusconi, milanese verace, la Fininvest viene costituita a Roma - spiega agli inquirenti il professor Paolo Iovenitti, consulente della difesa Dell' Utri al processo di Palermo - e poco dopo segue un' altra Fininvest, sempre a Roma...».
Marcello Dell'Utri
E' tutto un po' strano. E' tutto un po' falso o un po' vero? Al proposito si riporta la diagnosi di Indro Montanelli: «E' un mentitore professionale: mente a tutti, sempre, anche a se stesso, al punto di credere alle sue stesse menzogne». Questa invece la diagnosi di Bettino Craxi: «Silvio non è un bugiardo, è uno che dice molte bugie. Come deve fare un buon venditore».
E un buon venditore si vede anche dalle piccole cose. Berlusconi compra la Standa e di cosa si occupa personalmente? «Ho innovato nei sistemi promozionali curando anche la parte artistica e la scrittura dei comunicati». Standa, la casa degli italiani, un suo bellissimo spot. Un po' architetto, un po' pubblicitario, un po' editore.
Spunta nei colloqui - auscultato e naturalmente verbalizzato - il nome di Tanzi. La Parmalat e Retequattro. C' è Dell' Utri all' altro capo del filo. Berlusconi inizia: «Sono molto angosciato per questa roba di Retequattro (...) Questo Tanzi è un furbo, in più stupido». D. «Sì, quindi pericoloso». B. «Sì quindi pericoloso, secondo me... la cosa che mi sembra assurda è che lui possa tacere a uno come De Mita il fatto che la società resta a noi. Ma come fa, scusa? Perché lui esiste solo se c' è De Mita».
E' dura essere sempre intercettati, ed è dura rispondere agli assilli dei magistrati. L' uomo è debole, e tutti siamo uomini. Accade anche ai dirigenti delle banche. Una di queste, la Banca Popolare di Abbiategrasso, interpellata dai professionisti che sono stati incaricati di produrre «una prima nota informativa sui flussi finanziari» delle società del Biscione, comunica che gli estratti conto di tredici Holding, conservati su pellicola microfilmata, risultano essersi bruciati.
E la Banca Popolare di Lodi, che ha incorporato la Banca Rasini, «finanziatrice - scrive Barbacetto nel libro - dei primi passi imprenditoriali di Berlusconi - prima nega di aver intrattenuti rapporti e poi, dopo insistenze, consegna la documentazione richiesta che nell'anagrafe aziendale della banca è catalogata sotto la voce "Servizi di parrucchieri e istituti di bellezza"». Parrucchieri e istituti di bellezza, proprio così.
(la Repubblica)
venerdì 29 maggio 2009
"Poi finisce che non scopiamo più!"
domenica 19 aprile 2009
Chi non salta comunista è....
di EUGENIO SCALFARI
E' vero, sostanzialmente è sempre stato così ma con qualche differenza di non poco conto. La prima differenza è questa: nessun governo, tranne quelli guidati da Silvio Berlusconi, ha mai avuto a sua disposizione le televisioni commerciali, cioè l'altra metà del cielo televisivo. Il fatto che l'attuale presidente del Consiglio abbia a sua completa mercé la propria azienda televisiva privata e l'intera azienda pubblica (salvo la riserva indiana di Raitre finché durerà) configura quindi una situazione che non ha riscontro in nessuna democrazia del mondo. Non so se sia vero che le nomine siano state decise l'altra sera nella riunione di tre ore nell'abitazione romana del premier. E' certo comunque che i nomi proposti dal direttore generale Masi saranno ratificati senza fiatare dal Cda della Rai di mercoledì prossimo e saranno tutti "famigli" di Berlusconi, provenienti dalle sue televisioni private o dai suoi giornali o pescati tra le giovani speranze già inserite nell'accogliente acquario dell'azienda pubblica, collaudati custodi del credo berlusconiano nel circuito mediatico.
Non ci sarà purtroppo una sola persona che abbia mai mostrato un barlume d'indipendenza, un soprassalto di dignità professionale, un dubbio sull'assoluta verità predicata dal Capo.
Questo è lo scandalo, questa è la vergogna, alla quale quel poco di cosiddetta indipendenza che ancora esiste nella stampa italiana si sta ormai adattando per assuefazione esprimendo tutt'al più qualche sommesso brontolio subito seguito da rimbrotti all'opposizione, colpevole di ideologismo e di conservatorismo.
Il quadro è desolante. Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Il controllo dei "media" non serve soltanto a procacciar voti ma soprattutto a trasformare l'antropologia d'una nazione. Ed è questa trasformazione che ha imbarbarito la nostra società, l'ha de-costruita, de-politicizzata, frantumata, resa sensibile soltanto a precarie emozioni e insensibile alla logica e alla razionalità.
Chi non è d'accordo è comunista. E firme di intellettuali o sedicenti tali accreditano questo scempio culturale e questa menzogna.
Dedicherò dunque al predetto scempio il seguito del mio ragionamento.
Quindici anni fa partecipai alla presentazione di un libro di Achille Occhetto al circolo della stampa estera a Roma, in quell'occasione il corrispondente di un giornale tedesco mi domandò che fine avrebbero fatto i comunisti dopo che il Pci aveva buttato alle ortiche il suo nome e la sua ideologia.
Risposi che i comunisti dovevano morire e così i loro figli e nipoti fino alla settima generazione. Solo quando fossero tutti fisicamente estinti sarebbe cessata la polemica nei loro confronti. Infatti è quanto è avvenuto e sta ancora avvenendo e poiché siamo ancora lontani dalla settima generazione l'anatema contro di loro continua e continuerà per un bel pezzo. Non è soltanto il tema prediletto dal nostro premier e dai Bonaiuti di turno, è anche diventato il piatto forte di molti belli ingegni transumanti che all'ombra del revisionismo sono passati dall'anticomunismo di "Lotta continua" e di "Potere operaio" all'anticomunismo di destra. Per loro ormai i comunisti sono diventati un'ossessione, ne vedono la presenza ovunque, alimentano i loro incubi e le loro farneticazioni e ai comunisti attribuiscono tutti i mali antichi, recenti, attuali e futuri che affliggono la politica italiana.
I comunisti. Il Partito comunista italiano. La sinistra italiana. Sono ancora tra noi. Non sono affatto scomparsi. Non sono estinti. Non sono stati rinnegati. Finché questo lavacro definitivo non sarà compiuto l'Italia sarà in pericolo e con essa anche la democrazia.
Ne ha fatto le spese l'ultimo libro di Aldo Schiavone il quale ha risposto al mitragliamento di cui era bersaglio con un articolo su "Repubblica" di qualche giorno fa. Con pungente ironia Schiavone domandava ai suoi interlocutori: che cosa volete che faccia? Debbo suicidarmi? Vi contentereste invece se promovessi un salmodiante corteo di pentiti che percorrano le strade d'Italia autoflagellandosi e invocando perdono per il peccato d'essere stati nel Pci?
La risposta non è ancora arrivata ma sarà sicuramente quella da me anticipata nel 1994, all'alba della stella berlusconiana: dovete morire fino alla settima generazione. Caro Aldo Schiavone, non c'è altra espiazione che basti a cancellare il vostro peccato mortale.
Tra le persone che mi onorano della loro amicizia c'è Alfredo Reichlin. Abbiamo più o meno la stessa età, ci conosciamo e stimiamo da mezzo secolo sebbene i nostri percorsi culturali siano stati assai diversi. Lui entrò nel Pci ai tempi della Resistenza, io sono di cultura liberale e tale sono rimasto anche se dopo la morte di Ugo La Malfa ho sempre votato per il Pci, poi per i Ds e infine per il Partito democratico che è il più conforme alle mie idee liberal-democratiche.
Reichlin ha scritto qualche anno fa un libro insieme a Miriam Mafai e a Vittorio Foa, che ha avuto molto successo ed è stato portato in teatro da Luca Ronconi. La domanda che quel libro si poneva era appunto perché un democratico è potuto diventare comunista e che cosa faranno i comunisti dopo che il comunismo è scomparso dalla scena politica del mondo.
Tra le risposte ce n'è una di Reichlin che riassumo così: il Pci ha certamente commesso molti errori, ha condiviso un'ideologia sbagliata, ha perfino coperto alcuni crimini, ma non è una realtà discesa sull'Italia come un meteorite. La domanda da porsi è dunque questa: perché la società italiana ha reso possibile la nascita d'un partito come il Pci, al quale si sono iscritti o per il quale hanno votato operai e borghesi, artigiani e contadini, marxisti e liberali, atei e credenti? Che al suo culmine ha quantitativamente raggiunto i voti della Democrazia Cristiana? Che Aldo Moro ha associato negli anni di piombo al governo del paese?
Questa domanda meriterebbe un'analisi seria. Almeno altrettanto seria quanto l'altra domanda speculare: perché la società italiana attuale ha reso possibile la nascita del berlusconismo e gli ha dato uno strapotere che somiglia sempre più ad un regime?
Con una differenza tra le due domande: ragionare sul Partito comunista sta diventando col passare degli anni materia per gli storici; ragionare sul berlusconismo è un tema maledettamente attuale e riguarda la politica e non ancora la storia.
Si dice che ormai non c'è più differenza tra destra e sinistra. Si inventano nuove classificazioni, per esempio quella tra progressisti, moderati, conservatori. Discorsi inutili e abbastanza noiosi. Scolastici. Lontani dalla realtà.
Il tema di oggi è il rapporto tra i grandi ideali della modernità: libertà eguaglianza fraternità. L'ho già scritto altre volte: l'età moderna è nata da questo trittico di principi e ha dato segnali di decadenza tutte le volte che quel trittico si è indebolito nelle coscienze e nella politica.
Il tema di oggi è quello di ridurre le disuguaglianze senza mettere a rischio la libertà. Questo distingue la sinistra dalla destra.
Bisogna tradurlo in atti politici. Bisogna cambiare l'antropologia del Paese. Bisogna superare l'indifferenza e l'apatia. Bisogna resistere per costruire il futuro.
(La Repubblica)
giovedì 16 aprile 2009
Dalla parte delle vignette
di Massimo Gramellini
Vauro sospeso e Santoro «riequilibrato». Sono le decisioni del nuovo direttore generale della Rai a una settimana dalla puntata di AnnoZero che ha indignato molti, compreso chi scrive, perché ha voluto processare lo Stato a macerie ancora calde, dando prova non di cattivo giornalismo ma di cattivo gusto. Santoro e i suoi inviati non hanno criticato l’azione dei soccorritori, come sostengono alcuni critici. Hanno denunciato l’assenza di un piano preventivo di soccorsi.
Ma il farlo mentre i soccorsi erano in atto e centinaia di persone rischiavano la pelle per salvarne delle altre è parso a molti, compreso a chi scrive, l’ennesima prova del distacco abissale fra certi intellettuali di sinistra e la percezione della realtà. Una mandria di rinoceronti sarebbe stata più sensibile.
Eppure, delle due sanzioni assunte dalla Rai, una lascia esterrefatti e l’altra suscita perplessità. Cominciamo dalle perplessità. In astratto si può essere d’accordo con l’intenzione di «riequilibrare» un programma palesemente squilibrato. Ma in cosa si tradurrà questo riequilibrio in concreto? Il monologo iniziale di Travaglio sarà sostituito da uno di Sgarbi? Santoro girerà per lo studio senz’audio, doppiato da Emilio Fede? Seriamente: «riequilibrio» significa che gli inviati di AnnoZero dovranno impegnarsi a intervistare i vigili del fuoco e i rari casi umani ancora sfuggiti alle telecamere degli altri centoventisette programmi che hanno infilato i loro denti aguzzi nella Immane Tragedia dispensatrice di audience?
Nessuno si faccia illusioni. L’obiettività è una chimera: la stessa intervista, trasmessa ad AnnoZero e, poniamo, a Porta a Porta, cambia completamente significato con una musica, un montaggio e un «cappello» introduttivo differenti. I fatti non sono mai separabili dalle opinioni, per la semplice ragione che i fatti sono opinioni, a seconda dell’ordine e del modo in cui vengono apparecchiati. Perciò l’unica garanzia di obiettività non è una trasmissione plurale, ma una pluralità di trasmissioni. Poiché siamo in Italia, finirà all’italiana. Santoro ribadirà di non aver voluto offendere, ma solo indagare le cause delle disfunzioni organizzative. I suoi amici diranno che AnnoZero dà voce ai mal di pancia di una minoranza che non si riconosce nel cloroformio dei grandi partiti e non ha altre piazze televisive a disposizione. I suoi avversari ribadiranno che Santoro è fazioso e in malafede. E si andrà avanti così, ciascuno convinto di avere ragione e di essere una vittima.
A lasciare esterrefatti è invece la sospensione di Vauro. La sua vignetta sull’aumento di cubatura dei cimiteri, esibita in coda ad AnnoZero, offendeva la sensibilità di chi aveva appena perso una persona cara. Ma non era un articolo di fondo. Era una vignetta. Quando gli estremisti islamici si sentirono offesi da quelle su Maometto, molti di coloro che oggi plaudono alla sospensione di Vauro erano in prima fila, addirittura in tv a canotta sguainata, nel difendere la libertà di espressione. Le vignette sono un porto franco. Non possono soggiacere ad alcun vincolo, nemmeno a quello del buon gusto (che, se peraltro venisse applicato sul serio, porterebbe alla chiusura dell’80% del palinsesto televisivo). Il guaio è che, come insegna l’Undici Settembre, le catastrofi provocano sempre, di riflesso, un irrigidimento del potere. L’altra sera, a Ballarò, persino una battuta innocua di Crozza ha ricevuto la risposta sussiegosa del ministro Maroni («In un momento così tragico...»). Ecco, in un momento così tragico bisogna difendersi dalla prosopopea e dalla retorica. E quindi difendere anche il diritto alle battute di dubbio gusto, chiunque sia a pronunciarle: un presidente del Consiglio come un vignettista del manifesto.
(La Stampa)
Guai alla tv che rema contro
di MICHELE SERRA
Rispetto ai tempi del goffo "editto bulgaro", le nubi censorie che si addensano su Michele Santoro e su Milena Gabanelli (e tramite loro sulla Rai nel suo insieme) esprimono un punto di scontro più nitido e, nel suo genere, più maturo.
Non è solo e non è tanto la "faziosità politica" - colpa opinabile per definizione - a essere sotto tiro. È la sostanza stessa del medium più importante e penetrante, la televisione, che trasmissioni come Annozero e Report interpretano come un contro-potere strutturalmente autonomo (tale è l'informazione nella tradizione delle democrazie), e questo potere politico intende, invece, come cingolo di trasmissione dei propri scopi: non per caso è un potere al tempo stesso politico e mediatico. Anche tecnicamente.
Nei giorni drammatici del terremoto, lo scontro tra queste due funzioni della televisione è stato evidente. Si trattava di mettere l'accento sulle deficienze strutturali e le responsabilità umane che hanno aggravato di molto il bilancio delle vittime e dei danni. Oppure di esaltare l'opera dei soccorsi e l'efficienza dello Stato. Il primo obiettivo è tipico del giornalismo-giornalismo, che qui da noi, non si capisce bene per quale strambo equivoco, si chiama "d'assalto". Il secondo obiettivo è invece tipico della propaganda politica. Genera un linguaggio che tende alla retorica del positivo quanto il primo rischia di cadere nella retorica del negativo.
Scelga ognuno quale di questi due rischi sia più sgradevole e pericoloso per la pubblica opinione. Ma si sappia che è solo il primo rischio - quello di una televisione aspra e irriducibile - a essere sotto accusa, e a nessuno, né dentro la Rai né nella cerchia della politica, è venuto in mente di biasimare o sanzionare le centinaia di ore di televisione leziosa e piagnona che hanno imbozzolato la tragedia del terremoto in un reticolo implacabile di buoni sentimenti, misurando ben più volentieri il diametro della "bontà nazionale" che quello dei pilastri sottodimensionati.
Che i media abbiano anche, in queste situazioni, una funzione di rete connettiva, non solo logistica, che aiuta a reggere l'urto della morte, e a sentirsi comunità, è fuori di dubbio. Ma questa funzione è stata svolta perfino con sovrabbondanza, e fino a rendere stucchevoli anche le immagini del dolore e della rovina. Santoro e la sua redazione hanno scelto - in minoranza - di fare il resto del lavoro, come compete alla storia professionale di un giornalista molto discusso (e discutibile) ma molto tenace. E premiato dall'audience, concetto evidentemente sacro quando si tratti di contare i soldi della pubblicità, ma subito sottaciuto quando si tratti di misurare la temperatura di una parte consistente dell'opinione pubblica.
Peccato che questo "resto del lavoro", sicuramente complementare a un quadro generale molto più blandamente critico, risulti insopportabile al potere politico, così come la puntuta inchiesta di Milena Gabanelli sulla social-card non poteva che fare imbufalire il ministro Tremonti.
"Remare contro" fu una delle prime accuse che il Berlusconi leader nascente mosse ai suoi oppositori. Non lo sfiorò (e non lo sfiora) il sospetto che c'è chi rema né contro né a favore, ma per suo conto. Anche sbagliando, ma sottoponendo al giudizio del pubblico, non al giudizio del potere, i propri errori. Il giornalismo è questo, e dovrebbe saperlo anche il direttore del Giornale Mario Giordano, che un minuto dopo avere potuto dire esattamente quanto voleva dire ad "Annozero" ha orchestrato una violenta campagna di stampa contro lo "sciacallo Santoro". Qualcuno aveva forse detto a Giordano, o a uno qualunque dei giornalisti e telegiornalisti governativi, che usare il terremoto per magnificare la prestanza e la generosità del premier era "sciacallaggio"? Ci si era limitati a pensare, magari, che fosse cattivo gusto, e la libertà di cattivo gusto, se non è sancita dalla Costituzione, è suggerita dal buon senso.
Quanto alla vignetta di Vauro trattata da casus belli e ridicolmente accusata di mancanza di "pietà per le vittime", varrebbe il concetto di cui sopra: qualora la si ritenga di cattivo gusto, da quando il cattivo gusto è oggetto di censura? E quelli che, al contrario, affidano la "pietà per le vittime" a ben altri canali, magari privati, e apprezzano la ruvida intelligenza e la lunga coerenza professionale di Vauro, dovrebbero forse ingoiare il boccone della censura nel nome di una "informazione corretta"? Ma corretta da chi? Dal direttore del "Giornale"?
(La Repubblica)
venerdì 20 marzo 2009
Fare Futurismo
di Angelo D'Orsi
Ma è possibile che in questo paese si debba oscillare sempre fra ripulsa e apologia? Tra damnatio e laudatio? Tra demonizzazione e giubilazione? Giornalisti e politici, studiosi e organizzatori di cultura diventano ora esorcisti del demonio di turno, ora adoratori magari dello stesso diavolo, ridiventato angelo.
Le celebrazioni in atto del Futurismo, in occasione del centenario della sua fondazione (febbraio 1909), sono una manifestazione corale al limite dell'incredibile: dopo decenni di rimozione, a partire dagli Anni 80 cominciò la rivalutazione del Futurismo che ora si trasforma in un delirio apologetico, un osanna collettivo, che passa per le esposizioni:
da Milano (capitale del Futurismo) a Reggio Calabria (patria di Umberto Boccioni, indubbiamente il pittore più significativo non solo del movimento), da Bologna - che reclama, con un suo vecchio giornale, La Gazzetta dell'Emilia una primogenitura del Manifesto di fondazione (rispetto al parigino Figaro) a Roma (centro motore del Secondo Futurismo), e così via.
Mostre significano cataloghi (pesanti e costosi) e cerimonie inaugurali: quella romana - la "notte futurista" del 20 febbraio, giorno della pubblicazione del Manifesto sul Figaro, è stata un esempio clamoroso di spettacolarizzazione - piuttosto pacchiana - e di strumentalizzazione politica, all'insegna della lettura del Futurismo in termini ideologicamente denaturati, o, addirittura, adattati alla bisogna di una Roma che forse si vuole di nuovo "imperiale".
Nel documentario proiettato alla mostra si arriva alla manomissione dei testi: il famoso punto 9 del Manifesto, quello che esalta la guerra "sola igiene del mondo", è amputato del passaggio relativo al "disprezzo della donna", uno degli elementi costanti dell'ideologia futurista.
I testi, per giunta, vengono letti con voce che vorrebbe essere stentorea, ma risulta soltanto ridicola, sulla base di una ricostruzione storica che propone omissioni inaccettabili (ad esempio, non si nomina mai la parola "fascismo"...), con affermazioni che contraddicono la realtà, per esempio quando si parla di un Futurismo "sempre all'avanguardia", e da esso si fanno discendere movimenti che nacquero indipendentemente;
e dimenticando che negli anni del Regime i futuristi furono reclutati dal fascismo e se ne fecero alfieri, mentre, peraltro, non rinunciavano a chiedere commesse statali, aiuti personali al duce, prebende e cariche onorifiche.
È noto che Marinetti stesso, dopo aver tuonato per anni contro le accademie, accettò la carica di accademico d'Italia, fin dalla prima "infornata", nel 1929, diventando addirittura segretario della "classe di Lettere", pavoneggiandosi, grottescamente, con la sua brava feluca e lo spadino d'argento.
Naturalmente, accanto alle mostre, convegni e libri. Occasione perlopiù persa per una rivisitazione critica: occasione, invece, per una celebrazione assordante del Futurismo e del suo capo Marinetti.
Che Giordano Bruno Guerri, già laudator di Bottai e Malaparte, etichetta senz'altro come "rivoluzionario", rifacendo il verso al De Felice biografo del primo Mussolini: ma costui veniva dalla tradizione dell'anarco-socialismo romagnolo, e sebbene digiuno di Marx, aveva partecipato a moti di piazza, era stato un organizzatore in seno al Partito Socialista...
Ma Marinetti rivoluzionario? Certo, non possiamo dimenticare Gramsci e le sue felici notazioni sui futuristi, "rivoluzionari in cultura, reazionari in politica". Il Futurismo - il primissimo, quello antecedente alla Grande guerra - svolse una funzione rinnovatrice, egli osservava; ma i futuristi, alla fine, si sono rivelati null'altro che "un gruppo di scolaretti scappati da un collegio di gesuiti", che, dopo aver "fatto un po' di baccano nel bosco vicino... sono stati ricondotti indietro sotto la ferula dalla guardia campestre".
Provocatore, certo, Marinetti, innovatore per certi aspetti; ma non si può dimenticare la totalità squisitamente reazionaria del Futurismo, insistendo sulla sua "novità" (relativa, peraltro), sugli aspetti di modernizzazione, che si limitavano a celebrare i suoi segni esteriori, idolatrando l'industria e la macchina, lo sviluppo indefinito e un progresso ridotto a pura tecnica.
Una tecnica che comprendeva, e anzi poneva al primo posto, quella bellica. Tutto il Futurismo - che invano uno studioso serio come Emilio Gentile si sforza di staccare dal nazionalismo imperialista parlando di un asettico e incolpevole "italianismo" - nasce e vive e muore entro il perimetro ideologico del nazionalismo, che esercitò una potente egemonia capace di catturare lo stesso fascismo.
Il culto della violenza, il nazionalismo con tratti non di rado razzisti, una concezione gerarchica e pesantemente antiegualitaria della società, un'esaltazione acritica di una modernità che in realtà nessun futurista capì neppure lontanamente...
E soprattutto una martellante apologetica della guerra sono stati lo zoccolo duro del Futurismo: presentarlo oggi come un'assemblea di goliardi giocherelloni, che festosamente condussero Italia "nella modernità", è grottesco.
Scambiando la guerra per una manifestazione del "moderno" e facendosene campioni, i futuristi - con qualche eccezione - si assunsero una responsabilità gravissima; e le loro "parole in libertà" in vero pesavano come pietre, anzi come bombe. E mentre Marinetti cantava "armi ed eroi della guerra mussoliniana" (ancora nel 1944, fedele milite della Repubblica di Salò), centinaia di migliaia di nostri connazionali morivano sotto bombe autentiche.
(La Stampa)
lunedì 16 marzo 2009
Report Catania
di Concetto Vecchio
Che fine hanno fatto gli 850 milioni di euro, disposti nel 2002 dal governo Berlusconi per mettere in sicurezza la città di Catania dai rischi sismici e risolvere l´emergenza traffico? Una montagna di soldi che piovvero sul sindaco Umberto Scapagnini - medico del premier, la cui amministrazione ha portato il Comune a un passo dalla bancarotta - senza che dovesse passare dal consiglio comunale.
Scapagnini fu nominato commissario dell´Ufficio speciale e il tesoretto poté essere speso «per cassa e non per competenza»: in altre parole, senza alcuna rendicontazione. Sette anni dopo il bilancio è desolante. Gli 850 milioni sono stati spesi per costruire cinque megaparcheggi scambiatori: tutti abbandonati.
Il più grande, il parking Fontanarossa, attaccato all´aeroporto, appaltato al consorzio Uniter, è costato 13 milioni, dopo i 5 milioni 700 mila euro sborsati per espropriare il terreno: è fermo da anni. Temendo lo tsunami - lo tsunami ! - fu realizzata in alternativa al lungomare un´ipotetica via di fuga, ma la strada, il viale De Gasperi, finisce sfortunatamente in un vicolo cieco.
Le scale antincendio nelle scuole penzolano nel vuoto, le crepe nei muri mascherate da una passata di intonaco, com´è avvenuto alla scuola Brancati, sul punto di crollare. E le caserme, gli ospedali, i palazzi strategici della città più sismica d´Europa? Perché non sono stati messi a norma?
Il destino incerto di questi 850 milioni - ma secondo una relazione del capo della Protezione civile Guido Bertolaso si tratterebbe di una cifra compresa tra 1,5 e 2 miliardi di euro: fondi avanzati dalla legge 433/1990 - è stato denunciato ieri sera da "Report", la trasmissione di Milena Gabanelli su Rai3, con un´inchiesta di Sigfrido Ranucci, "I Viceré".
Quando piove il Villaggio Goretti sembra il Canal Grande e gli abitanti lo circumnavigano in gondola con amaro fatalismo: «Semu consumati». Siamo rovinati. Si poteva sistemare con i fondi Fas, ma i 140 milioni concessi ad ottobre dal Cipe sono stati utilizzati per salvare il municipio dalla bancarotta. Un salvataggio che fa ancora piangere di rabbia i sindaci virtuosi.
Scapagnini e Berlusconi
Catania è una buona metafora del Mezzogiorno d´Italia. Benché sul lastrico, impazzita di traffico - i pochi vigili stanno al cellulare mentre tutt´intorno gli scooter transitano impuniti senza casco - sommersa da cumuli d´immondizia e con i cani randagi che percorrono indisturbati il centro storico, come denuncia un fotoservizio dell´onorevole Enzo Bianco, da sempre vota per Berlusconi.
"Report" rivela che la società dedita alla riscossione dei tributi dell´acqua, la Sidra, vanta crediti con il Comune per 22 milioni di euro poiché le varie giunte si sono rifiutate per anni di riscuotere la tassa nei quartieri popolari, serbatoi di voti del centrodestra. La Sidra spende migliaia di euro per singolari sponsorizzazioni: il concorso di Miss Muretto, le feste dei zampognari di Lentini, castagne e ciondoli.
«Ma lo volete capire che l´83 per cento della città non sta con voi» urla il sindaco Raffaele Stancanelli (An), durante un incontro con l´associazione Cittàinsieme, punta avanzata della società civile. Stancanelli ha appena stanziato 553 mila euro per contribuire alla festa di Sant´Agata. Un miliardo di vecchie lire sono un mucchio di quattrini in un municipio che aveva accumulato debiti per quasi un miliardo di euro, le cui aziende partecipate lamentano passivi pari a 120 milioni di euro.
La mafia governa molti gangli vitali della città. Il 12 marzo è cominciato il processo al clan Santapaola, che sino al 2005 avrebbe controllato la rutilante festa di Sant´Agata per accrescere così il proprio prestigio. Nel circolo Sant´Agata la tessera numero uno era di Nino Santapaola, la numero due di un altro mafioso, Enzo Mangion. «Che significa? Sempre un cittadino catanese è?», commentano i devoti.
I Santapaola e i Mangion sorreggono le reliquie, dirigono la processione dal cereo, come dimostrano le foto allegate agli atti del dibattimento. Nel 2004 la candelora venne fatta fermare nei pressi dell´abitazione di Giuseppe Mangion, detto "U zu Pippu", scarcerato tre mesi prima dal carcere di Pisa. Esplosero fuochi d´artificio, spararono botti. Una città dove le regole del gioco sono truccate, denuncia la Gabanelli.
Ogni tanto nel filmato fa capolino Scapagnini, affabile, suadente. «Berlusconi vivrà più di cent´anni in buone condizioni». Il premier, rivela una farmacista del centro, si rifornisce da loro. Lei prepara con le sue mani un farmaco miracoloso. A che serve, le chiede Ranucci con la telecamera nascosta: «Ha anche un´azione tipo endorfine che rasserena e poi potenzia anche il coso muscolare...»
(La Repubblica)
venerdì 27 febbraio 2009
Scontri in Vaticano
Carlo Marroni
Il segnale che il livello di guardia è ormai raggiunto è arrivato da Londra. Il cardinale Cormac Murphy-O'Connor, capo della Chiesa cattolica inglese, ha vietato all'arcivescovo di curia, Raymond Burke, prefetto della Segnatura apostolica, di celebrare nella cattedrale di Westminster una messa in latino secondo le nuove regole del Motu Proprio del 2007 sul messale tridentino.
Burke, americano, non è un vescovo tra i tanti: è un falco, uno dell'ala dura dei custodi della tradizione voluto direttamente da Benedetto XVI di cui è giurista di fiducia. Si sta lentamente abbassando il polverone sul caso dei lefebvriani e del vescovo negazionista Richard Williamson (che tornato in Inghilterra incontrerà il "collega" storico, il vescovo David Irving), e si può vedere con più chiarezza il duro confronto in atto tra le varie anime della Chiesa, immediatamente sotto il Soglio di Pietro.
Conservatori e progressisti sono categorie che solo in piccola parte riescono a definire quello che spesso sfocia in scontro, visti i registri usati di là dal Tevere e nelle curie vescovili dell'Italia e del resto del mondo.
Il governo della Chiesa di Benedetto XVI, che si avvia verso il quarto anno di pontificato, fa fatica a comunicare con il resto del mondo- che si commuoveva ai messaggi universali di Karol Wojtyla - e stenta a declinare la lotta al relativismo etico di Joseph Ratzinger.
Che negli ultimi giorni è venuto allo scoperto come era difficile immaginare fino a qualche tempo fa: non lasciatemi solo, ha detto il Papa, e ha denunciato le divisioni all'interno della Chiesa. Il cardinale segretario di Stato, Tarcisio Bertone, governa con decisione ma si tiene abilmente al di sopra delle questioni che stanno sul tappeto e che mettono in risalto come le diverse fazioni si confrontino sui singoli temi.
Un segnale fortissimo- e del tutto ignorato - è stato il messaggio di ringraziamento del Papa ai vescovi spagnoli che lo hanno sostenuto nella revoca della scomunica ai tradizionalisti. L'espiscopato spagnolo, guidato dal cardinale di Madrid Antonio Rouco Varela, è considerato quello più conservatore.
Dalla Spagna proviene il cardinale Antonio Canizares Llovera, "il piccolo Ratzinger", promosso di recente da vescovo di Toledo a prefetto per il Culto divino. I vescovi spagnoli sono quelli che portano in piazza due milioni di fedeli contro il Governo Zapatero (che di recente ha siglato una pace, o più probabilmente solo una tregua, con il Vaticano grazie alla visita di Bertone a Madrid) e che organizzeranno la prossima Giornata mondiale dei giovani.
Il ringraziamento pubblico del Papa, del tutto inconsueto, è un messaggio a quegli episcopati che invece lo hanno attaccato o comunque non sostenuto nella vicenda dei lefebvriani: dai tedeschi ai francesi, dagli svizzeri agli austriaci.
In Austria, il cardinale di Vienna, Christoph Schönborn, vecchio allievo del professor Ratzinger, ha criticato «i collaboratori del Papa» che hanno gestito la vicenda Williamson e ha dovuto convincere Roma a revocare la nomina a vescovo ausiliare di Linz dell'ultraconservatore Gerhard Wagner.
Il perdono dei lefebvriani - gestito dal cardinale Dario Castrillon Hoyos, ora nell'occhio del ciclone - è ancora a metà strada e le difficoltà per arrivare alla riabilitazione piena della Fraternità di Pio X sembrano enormi, vista la posizione del superiore Bernard Fellay che continua a negare il Concilio vaticano II (in Nostra Aetate è contenuta la chiave della pace con il popolo ebraico).
Molte delle alte cariche di curia nominate da Benedetto XVI - il sostituto Fernando Filoni e i cardinali William Levada ( Dottrina della fede), Ivan Dias (Propaganda fide) e Claudio Hummes (Clero)- sono indicate su posizioni sempre più liberal, e rafforzano il partito dei "diplomatici", capeggiato idealmente da Achille Silvestrini e dall'ex segretario di Stato Angelo Sodano, che non condivide la linea intrapresa dal Vaticano. Anche su questioni internazionali di portata storica.
Prima di tutte quella su Israele: il viaggio del Papa ha ancora delle incognite, rappresentate dalla visita al mausoleo di Yad Vashem (dove c'èla didascalia con le accuse a Pio XII) e il raggiungimento di un accordo tra i due Stati per il trattamento fiscale dei beni della Chiesa in Terra Santa (la riunione risolutiva del negoziato che va avanti da 10 anni si terrà il 7 aprile, un mese prima della visita papale). Su questo terreno si misura il cardinale Walter Kasper, che più di ogni altro ha attaccato la gestione della curia del caso Williamson.
Poi la Cina, nel cuore del Papa che due anni fa scrisse una lettera ai cattolici cinesi che devono vivere in una condizione di semi clandestinità: il confronto con Pechino è uno dei dossier più scottanti della segreteria di Stato.
E anche su questo punto le scuole di pensiero si confrontano: da una parte il cardinale di Hong Kong, Joseph Zen (stimato dal Papa, che lo invitò a guidare le meditazioni della Via Crucis la scorsa Pasqua) è per la linea dura con il regime comunista, mentre dentro la curia si spinge per un maggior dialogo (spiccano l'arcivescovo Claudio Maria Celli, ora a capo del dicastero per le Comunicazioni-per molti sarebbe l'ideale nunzio apostolico a Pechino se si arrivasse a un avvio delle relazione diplomatiche e il sottosegretario Piero Parolin, impegnato per un accordo con il Vietnam).
L'altro tema-chiave della Chiesa di Benedetto XVI è il ruolo della Cei. Dopo l'uscita di Camillo Ruini, due anni fa, e del segretario generale Giuseppe Betori, lo scorso ottobre, si è realizzato il progetto di Bertone, che nel 2007 inviò alla Conferenza un messaggio pubblico netto: a guidare la politica e i rapporti con il Palazzo in Italia sarà la segreteria di Stato. E così è stato.
Il cardinale Angelo Bagnasco ha avviato con convinzione una linea di intervento sulla pastorale, accantonando progressivamente l'interventismo che aveva caratterizzato la gestione ruiniana, e culminato con il Family day e il fallimento del referendum sulla legge 40.
La nomina del vescovo Mariano Crociata a segretario ha confermato questa linea: la Cei interviene sulle questioni dell'immigrazione, sulle difficoltà e gli aiuti alle famiglie disagiate, sui giovani, sulla cultura. Ma ha abbassato moltissimo i toni sui valori non negoziabili - a partire dal testamento biologico, partita-chiave dei prossimi mesi che si gioca a diversi livelli (si segnala un attivismo dello stesso Betori, ora arcivescovo di Firenze, considerato su posizioni più dialoganti).
A fronte di un minore peso politico della Cei cresce l'articolazione sul territorio dei vari vescovi: i falchi della linea dura, i terzisti (o pontieri, secondo vecchie definizioni mutuate da Montecitorio) e le colombe progressiste pronte a parlare con il mondo secolarizzato. Questi ultimi, di stampo martiniano - fu proprio il cardinale Carlo Maria Martini a dire per primo no all'accanimento terapeutico- si riconoscono nel cardinale di Milano Dionigi Tettamanzi, attivissimo nell'ultimo anno, specie sul fronte sociale.
Bagnasco è considerato il capo fila dei "terzisti" saldi nei principi ma pronti al dialogo, mentre a capo della linea dura c'è sempre Camillo Ruini, che nonostante la pensione ufficiale (conserva un incarico in Cei tutt'altro che secondario, per la verità) resta un punto di riferimento per la Chiesa identitaria e militante.
(Il Sole24Ore)