di Angelo D'Orsi
Ma è possibile che in questo paese si debba oscillare sempre fra ripulsa e apologia? Tra damnatio e laudatio? Tra demonizzazione e giubilazione? Giornalisti e politici, studiosi e organizzatori di cultura diventano ora esorcisti del demonio di turno, ora adoratori magari dello stesso diavolo, ridiventato angelo.
Le celebrazioni in atto del Futurismo, in occasione del centenario della sua fondazione (febbraio 1909), sono una manifestazione corale al limite dell'incredibile: dopo decenni di rimozione, a partire dagli Anni 80 cominciò la rivalutazione del Futurismo che ora si trasforma in un delirio apologetico, un osanna collettivo, che passa per le esposizioni:
da Milano (capitale del Futurismo) a Reggio Calabria (patria di Umberto Boccioni, indubbiamente il pittore più significativo non solo del movimento), da Bologna - che reclama, con un suo vecchio giornale, La Gazzetta dell'Emilia una primogenitura del Manifesto di fondazione (rispetto al parigino Figaro) a Roma (centro motore del Secondo Futurismo), e così via.
Mostre significano cataloghi (pesanti e costosi) e cerimonie inaugurali: quella romana - la "notte futurista" del 20 febbraio, giorno della pubblicazione del Manifesto sul Figaro, è stata un esempio clamoroso di spettacolarizzazione - piuttosto pacchiana - e di strumentalizzazione politica, all'insegna della lettura del Futurismo in termini ideologicamente denaturati, o, addirittura, adattati alla bisogna di una Roma che forse si vuole di nuovo "imperiale".
Nel documentario proiettato alla mostra si arriva alla manomissione dei testi: il famoso punto 9 del Manifesto, quello che esalta la guerra "sola igiene del mondo", è amputato del passaggio relativo al "disprezzo della donna", uno degli elementi costanti dell'ideologia futurista.
I testi, per giunta, vengono letti con voce che vorrebbe essere stentorea, ma risulta soltanto ridicola, sulla base di una ricostruzione storica che propone omissioni inaccettabili (ad esempio, non si nomina mai la parola "fascismo"...), con affermazioni che contraddicono la realtà, per esempio quando si parla di un Futurismo "sempre all'avanguardia", e da esso si fanno discendere movimenti che nacquero indipendentemente;
e dimenticando che negli anni del Regime i futuristi furono reclutati dal fascismo e se ne fecero alfieri, mentre, peraltro, non rinunciavano a chiedere commesse statali, aiuti personali al duce, prebende e cariche onorifiche.
È noto che Marinetti stesso, dopo aver tuonato per anni contro le accademie, accettò la carica di accademico d'Italia, fin dalla prima "infornata", nel 1929, diventando addirittura segretario della "classe di Lettere", pavoneggiandosi, grottescamente, con la sua brava feluca e lo spadino d'argento.
Naturalmente, accanto alle mostre, convegni e libri. Occasione perlopiù persa per una rivisitazione critica: occasione, invece, per una celebrazione assordante del Futurismo e del suo capo Marinetti.
Che Giordano Bruno Guerri, già laudator di Bottai e Malaparte, etichetta senz'altro come "rivoluzionario", rifacendo il verso al De Felice biografo del primo Mussolini: ma costui veniva dalla tradizione dell'anarco-socialismo romagnolo, e sebbene digiuno di Marx, aveva partecipato a moti di piazza, era stato un organizzatore in seno al Partito Socialista...
Ma Marinetti rivoluzionario? Certo, non possiamo dimenticare Gramsci e le sue felici notazioni sui futuristi, "rivoluzionari in cultura, reazionari in politica". Il Futurismo - il primissimo, quello antecedente alla Grande guerra - svolse una funzione rinnovatrice, egli osservava; ma i futuristi, alla fine, si sono rivelati null'altro che "un gruppo di scolaretti scappati da un collegio di gesuiti", che, dopo aver "fatto un po' di baccano nel bosco vicino... sono stati ricondotti indietro sotto la ferula dalla guardia campestre".
Provocatore, certo, Marinetti, innovatore per certi aspetti; ma non si può dimenticare la totalità squisitamente reazionaria del Futurismo, insistendo sulla sua "novità" (relativa, peraltro), sugli aspetti di modernizzazione, che si limitavano a celebrare i suoi segni esteriori, idolatrando l'industria e la macchina, lo sviluppo indefinito e un progresso ridotto a pura tecnica.
Una tecnica che comprendeva, e anzi poneva al primo posto, quella bellica. Tutto il Futurismo - che invano uno studioso serio come Emilio Gentile si sforza di staccare dal nazionalismo imperialista parlando di un asettico e incolpevole "italianismo" - nasce e vive e muore entro il perimetro ideologico del nazionalismo, che esercitò una potente egemonia capace di catturare lo stesso fascismo.
Il culto della violenza, il nazionalismo con tratti non di rado razzisti, una concezione gerarchica e pesantemente antiegualitaria della società, un'esaltazione acritica di una modernità che in realtà nessun futurista capì neppure lontanamente...
E soprattutto una martellante apologetica della guerra sono stati lo zoccolo duro del Futurismo: presentarlo oggi come un'assemblea di goliardi giocherelloni, che festosamente condussero Italia "nella modernità", è grottesco.
Scambiando la guerra per una manifestazione del "moderno" e facendosene campioni, i futuristi - con qualche eccezione - si assunsero una responsabilità gravissima; e le loro "parole in libertà" in vero pesavano come pietre, anzi come bombe. E mentre Marinetti cantava "armi ed eroi della guerra mussoliniana" (ancora nel 1944, fedele milite della Repubblica di Salò), centinaia di migliaia di nostri connazionali morivano sotto bombe autentiche.
(La Stampa)